Calafiore - Arturo Belluardo

 Calafiore è la metafora della nostra società: addome pletorico ma senza anima. "Di me è rimasto soltanto il corpo, l'anima, se c'è mai stata, me la sono mangiata quando non ho capito. Non ho capito che il grasso serviva a coprire quell'esserino minuscolo che sono....". Il racconto rappresenta l'umanità di oggi, umanità che consuma, divora tutto e tutti, non solo, ma vuole appropriarsi di ogni cosa, fagocitarla, incorporarla, introitarla, per non fermarsi a prendere coscienza della sua imperfetta, umana, finitezza. Una sorta di delirio: possedere, oggetti, luoghi, persone, fino alla distruzione e, fatalmente, all'autodistruzione. Ciò che posseggo deve essere mio, non deve più esistere fuori di me, ma dentro di me, deve essere me "Non era cibo, era potere". Ma questa ossessione per possesso e potere rende incapaci di provare piacere: non c'è piacere nel mangiare fino a star male, non c'è piacere nel sesso con la collega, puro sfogo di istinto, non c'è piacere con la compagna, con cui non riesce ad avere rapporti, non c'è piacere nel lavoro, non c'è più il piacere: solo disgusto. Nessuno dei personaggi suscita (volutamente credo) simpatia: sporchi, maleodoranti, meschini. È un'umanità misera quella descritta da Belluardo: famelica, anaffettiva, corrotta, crudele, violenta, disumana, che vive per dimostrare e mostrarsi ("Se non racconto che senso ha? Che senso ha ogni cosa se non viene raccontata?") che lascia dietro e sopraffà chi non riesce a stare al passo. Un'umanità da cui non puoi salvarti. E allora che fai? Ti fai divorare o divori?


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