Il silenzio dell'acciuga - Lorena Spampinato

 Potente, profondo, doloroso, sconcertante, coinvolgente, toccante. Una scrittura essenziale ma intensa, fluida, apparentemente semplice, ma in cui ogni parola pesa ed è scelta con cura. Una bella penna quella di Lorena Spampinato. Descrive bene luoghi, persone, stati d'animo. Li vedi quei due bambini Tresa e Gero, abbandonati dal padre "seduti sulla grossa sacca di cuoio, le gambe composte e la schiena dritta e i piedi come lancette d'ottone, impegnati a ticchettare il tempo che passava". Cresciuti senza amore da un padre padrone, duro, rigido, che vive i due figli come un peso, un impedimento e che cerca di mortificare la femminilità della piccola Tresa riducendo l'essere femmina a "una condanna a sembianze e modi di essere da cui era meglio stare alla larga" ed educandola "nella tradizione che la femmina di casa si piegasse alle regole senza obiettare." Due ragazzini cresciuti in una casa in cui "il contatto non era mai un'estensione del sentimento, era piuttosto una dichiarazione di esistenza nei giorni di silenzio"e poi, da un giorno all'altro affidati alla zia Rosa, sorella della mamma morta,"scaraventati lì senza preavviso, come quelle vittime delle catastrofi naturali[...], con la valigia piena e la faccia confusa". E a casa della zia inizia una nuova vita, qui c'è "l'inizio della meraviglia, l'inizio del terrore". Zia Rosa insegna a Tresa che "essere femmina non aveva niente a che fare coi capelli, con i vestiti, con le cianfrusaglie che mio padre mi aveva vietato persino di desiderare. Non c’entravano – diceva – i modi di fare e di atteggiarsi, i lineamenti dolci, la prudenza dei gesti. Solo una cosa c’entrava, e mentre lo diceva Rosa stringeva entrambi i pugni per darsi più tono, solo una cosa: la libertà. La libertà di essere quello che volevo essere, quando volevo". Difficile in un piccolo paese alle pendici dell' Etna, un paese che sta stretto addosso, "con le solite facce, le solite voci" dove Tresa impara "quel modo di sentirsi soli ed infelici accanto agli altri". Un paese che "mentre il resto del mondo si apriva come gambe di donna e confezionava la sua rivoluzione, dove eravamo noi il fragore del sessantotto in arrivo si avvertì appena. Le sottane non si accorciato, i figli restarono piegati sotto il peso dei padri...bastava poco, pochissimo perché si gridasse allo scandalo". Un paese in cui alle donne non resta altro che chiedere scusa. Tresa è una bambina che cresce, e man mano che la sua femminilità viene fuori , anche se ormai il padre è lontano, deve fare i conti con una mentalità che la vuole sottomessa, con il fratello (che come il padre la preferisce brutta e mascolina) o Sasà, migliore amico di Tresa ("sospettoso, indagatore" che la vorrebbe tutta per sé, la vorrebbe plasmare a sua immagine, plasmarne anche i pensieri) o i compagni di classe che la deridono per l'aspetto fisico (masculina, cioè acciuga la chiamano), o un qualsiasi sconosciuto per strada che si sente in diritto di fischiarle dietro e di seguirla con lo sguardo ( "un grande occhio maschio che imponeva il suo sguardo ovunque") ed infine Giuseppe... Un romanzo su come l'ambiente ed il vissuto segnano un modo di essere "un modo che non veniva da me, che aveva origini remote. Un modo di cui ero figlia e di cui forse un giorno sarei stata madre". Un romanzo di sentimenti, disagi, dolori, speranze, desideri taciuti. Un romanzo che racconta come troppo spesso si finisca per colmare i vuoti "sotterrandoli dietro strati di silenzio". Un silenzio che grida dentro. "Trovai rifugio solo nel silenzio, come se oltre la barriera del suono si nascondessero solo altri guai". Quel silenzio, grande nemico delle donne e grande alleato di chi su di esse compie ogni genere di violenza. Peccato non sia tra i finalisti del premio Strega!


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