Volevo solo essere felice - L.R.

Volevo solo essere felice. Felice come quando c'era il mio papà. Ero la sua principessa. Il suo orgoglio. Non faceva che parlare di me, di quanto fossi bella, dolce, intelligente.
Una sera sono venuti con un'ambulanza e lo hanno portato via. Il cuore, dissero. E non l'ho visto più.
Volevo solo essere felice. Mamma non lo capiva. Per lei ero la figlia ribelle, sempre con la testa tra le nuvole, che passava il tempo a leggere romanzi d'amore, a guardarsi allo specchio, che preferiva un vestito nuovo alla fetta di carne in tavola; che si illudeva che, credendoci e faticando, fosse possibile avere un futuro migliore; che era convinta di poter realizzare i suoi desideri; la figlia sbagliata, non come mia sorella, giudiziosa e assennata. Che credi sia la vita? La vita è sacrificio, dolore, fatica. E per una donna ancora di più. Mamma, io voglio essere felice. E lì schiaffi, rimproveri, insulti, punizioni.
Imparai un lavoro, aiutavo la sarta del secondo piano per poter mettere da parte un po' di soldi ed andare via. Ma mi dava poche lire ed andavano via presto per un vestito che ammiccava dalla vetrina o il rossetto di un nuovo colore. Guardavo le attrici e le modelle sui giornali e sognavo i loro abiti, il loro trucco, le loro pettinature. E sognavo una vita bellissima, un futuro splendente, un negozio tutto mio, dove avrei disegnato io stessa gli abiti ed avrei insegnato a ragazze come me a confezionarli ed a realizzare i loro desideri, a trovare la loro strada, l'indipendenza, la libertà. E sognavo l'amore. Voglio solo essere felice. Lo ripetevo anche il pomeriggio che lo incontrai.
Ero andata a comperare il pane. Lui mi fermò con una scusa, mi fece i complimenti per il cappotto e la pettinatura all'ultima moda. Passeggiammo a lungo, chiacchierammo tanto e dimenticai di comperare il pane, così una volta a casa, le solite punizioni ed i soliti improperi. Ero una stupida, senza cervello, con la testa sempre tra le nuvole a fantasticare di amore e felicità. Ma quella sera non mi importò di andare a letto senza cena, pensavo a lui, ai suoi occhi neri, ai baffi ed alla barba che gli davano un'aria così rassicurante. E come tutte le sere raccontai la mia giornata alla foto di mio padre. Ti somiglia papà, sai? Forse per i baffi, forse per la voce calda, forse per i complimenti che mi ha fatto. Papà tu lo sai, voglio solo essere felice. 
Cominciammo a frequentarci. Lui era affettuoso, mi trattava come una bambina, e lo ero: lui aveva 32 anni, io solo 16. Per me era amore quel suo modo di dirmi come vestirmi, come parlare, come comportarmi. Cosa poteva essere, se non amore, quel rimproverarmi se un ragazzo mi guardava o se un amico mi salutava? Non era per amore che mi diceva che ero una sciocchina, che non sapevo esprimermi bene, che dovevo migliorare il mio vocabolario per essere all'altezza delle donne che lui frequentava al lavoro e fuori? Certo, era solo per amore e per proteggermi che mi aveva imposto di non truccarmi più e di uscire solo con lui. Quando eravamo soli era gentile, affettuoso, mi faceva stare bene. Mi faceva dimenticare il dolore che provavo quando tra la gente lui mi zittiva dicendo che non avevo capito di cosa parlavano o mi ridicolizzava suscitando l'ilarità dei presenti, ricordandomi che finché stavo zitta andava tutto bene, ma se cominciavo a parlare era un disastro. Tesoro mio tu sei la mia bella statuina, ma, per amor di dio, non esprimere opinioni!
In fondo aveva ragione, non avevo continuato gli studi, mi ero fermata alle medie, che testona, solo per fare un dispetto a mia madre. D'altra parte lei me lo diceva sempre che un diploma non lo avrei mai preso, non sono mica intelligente come mia sorella, io. Se ci fosse stato papà, certo che avrei continuato! A lui, il dolore di lasciare la scuola non lo avrei dato. Voglio solo essere felice. E per esserlo devo migliorare. Lui mi aiuta a migliorarmi, non vuole offendermi o sminuirmi. Farò come dice.
Una sera mi ero sentita particolarmente umiliata: forse avevo fatto un commento sciocco, o sbagliato a pronunciare una parola, o non so più neanche cosa e lui lo aveva sottolineato con fastidio. Mentre mi accompagnava a casa scoppiai in lacrime.
Non ce la faccio. Mi ferisci sempre. Non è giusto!
Sciocchina lo faccio per te.
Io voglio solo essere felice!
Sai che faccio? Ti sposo, così lasci la tua casa, e finalmente sarai felice.
Tornai a casa di corsa, le lacrime, ora, erano di gioia. Papà! Mi sposa! Organizzammo tutto in quattro e quattr'otto. Avevo 17 anni. Ero una bambina. E mi preparavo ad avere una casa mia, una famiglia mia. Mi preparavo ad essere felice. E lo sono stata. Ero un'ottima padrona di casa, una moglie premurosa; mi sentivo orgogliosa di riuscire a tenere tutto in ordine, in casa non mancava mai nulla e tutto era perfetto. Ci piaceva trascorrere il suo tempo libero dal lavoro in casa, a goderci la nostra intimità, a fare sogni e progetti. Uscivo solo per spese e commissioni. Lui preferiva sapermi a casa.
Non posso concentrarmi al lavoro se ti so in giro da sola.
Io accettavo e pensavo che fosse giusto così. Un po' pesava quel trascorrere la giornata in solitudine, quell'aspettare la sera per poter scambiare una parola e sentire una voce che non venisse dalla radio o dalla tv. Ma ero serena. Avevo lasciato la casa della mia infanzia, avevo portato con me solo la foto di mio padre ed il suo amore nel cuore. Le parole di mia madre non avevano più il potere di farmi soffrire come prima. La sua eterna disapprovazione non mi feriva più, né mi feriva il ricordo dell'amore che mi aveva negato. Certo, mi portavo addosso le ferite di chi è cresciuto senza affetto, apprezzamento, calore. Ero piena di insicurezze, fragilità, avevo poca fiducia in me, non mi sentivo mai all'altezza e pensavo di dover essere grata al destino perché avevo l'amore di mio marito. Sentivo di doverlo meritare ogni giorno quell'amore e non darlo mai per scontato, anche se questo significava accettare le limitazioni che mi imponeva e le battute spiacevoli che di tanto in tanto mi riservava.
Non era per amore che mi aveva sposata permettendomi di fuggire da mia madre? Non era per amore che preferiva sapermi a casa al sicuro anziché fuori tra la gente? Che importanza può avere una parola di biasimo di fronte a tutto questo?
Poi arrivò la mia bambina. Che gioia enorme! Giurai che l'avrei riempita d'amore, di carezze, di baci. Non le avrei fatto mancare affetto, protezione, conforto, consolazione. Sarei stata la sua roccia, il suo rifugio, il suo appoggio e nei miei occhi avrebbe letto sempre e solo amore ed orgoglio. Ero tanto giovane, da poco avevo lasciato le bambole. Crescevo anche io mentre crescevo la mia bambina.
Crescevo ed acquistavo consapevolezza. Non mi sembrava giusto vivere solo in funzione della mia famiglia. Sapevo fare tante cose e sentivo che era il momento che iniziassi a realizzarmi anche fuori.
Vorrei lavorare anche io. Anche solo poche ore. Mi sento prigioniera così, il tempo non passa mai e mi sento triste e sola e inutile. Voglio la mia indipendenza economica. Potrei fare tante cose, sai, il lavoro non mi spaventa e riuscirei comunque ad avere tempo per la bambina e la casa.
Perché dovresti lavorare? Penso io a tutto. Non c'è bisogno che tu vada in giro. Lo sai, starei in pensiero. Sei ancora una ragazzina, si approfitterebbero di te. Non se ne parla.
No, stavolta non mi convinci. Sento che la mia vita è più di questo. So che è giusto cosi.
Ero determinata e capì che non poteva impedirlo più.
Ma le frecciatine diventarono sempre più frequenti e offensive, non erano più dette col sorriso ma con durezza. Ogni volta che ero felice per un successo sminuiva il mio lavoro e si lamentava, ingiustamente, perché la cena non era buona o la casa non era in ordine. Cominciò a rimproverarmi sempre più spesso, sempre più aspramente, sempre più senza motivo. Cercavo di comprendere, di giustificare, anche quando le offese erano pesanti, anche quando mi rinfacciava di aver sposato una bambina capricciosa ed incapace che ora credeva di essere una gran donna, solo perché aveva sposato lui. Anche quando mi lesinava i soldi per la spesa, dicendomi che visto che lavoravo potevo far bastare ciò che guadagnavo io. Anche quando cominciò a fare vere scenate perché rientravo dieci minuti dopo di lui o perché mi compravo un paio di jeans.
Un giorno però smisi di comprendere e giustificare.
Accadde che durante una delle solite scenate, nelle quali non perdeva occasione per sminuirmi ed umiliarmi, mentre ascoltavo i suoi insulti, incrociai lo sguardo di mia figlia. Sembrava mi dicesse: Perché sopporti tutto? Sei come dice lui?
E capii che mi guardava con i suoi occhi, che mi vedeva come lui mi descriveva. Non potevo sopportarlo. Andai via. Ancora una volta non portai nulla con me, solo delle foto e tutto l'amore ed il dolore che avevo nel cuore.
Avevo per fortuna il mio lavoro e ne trovai un altro. Lavoravo fino a notte per potermi mantenere. E, piano piano ce l'ho fatta. Mia figlia col tempo ha scelto di venire a vivere con me. Ha capito quali erano le motivazioni che mi spingevano ad accettare tutto.
La vita ha fatto il suo corso. Oggi sono serena. Ho fatto tanta strada da allora e guardo con tenerezza a quella giovane, dolce, ingenua ragazza che amava la vita e amava sognare. Ho perdonato chi mi ha fatto male e soprattutto ho perdonato me stessa per aver lasciato che me ne facessero. Lavoro nel mio negozio che ho creato dal nulla, vivo nella mia casa calda ed accogliente, con i miei libri, la musica e coltivo le mie passioni. Non ho mai chiuso il mio cuore, ho vissuto altre storie. Credo ancora nell'amore e lo aspetto. Mi godo mia figlia, i miei adorati nipoti che mi amano. Amo la mia vita che tanto mi ha tolto e tanto mi ha dato e continua, ogni giorno, a donare e a prendere. Ma una cosa niente e nessuno più riuscirà a togliermela: il rispetto per me stessa.
Voglio solo essere me stessa.
Disegno di Mp.

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