Hotel Silence - Auđur Ava Ólafsdóttir

 "Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi smarrite", da "L'arte di perdere" di E. Bishop.

Un uomo: "Quasi quarantanove anni. Maschio. Divorziato. Eterosessuale. Senza nessun potere. Vita sessuale pari a zero. Buona manualità ", deluso e sopraffatto dal vuoto della sua esistenza decide di porvi fine e di farlo lontano da casa per evitare alla figlia il dolore di trovarlo privo di vita.

Con un bagaglio minimo e con la sua borsa degli attrezzi, si reca in un paese appena uscito da una guerra.

Già dalla prima pagina sappiamo che non si ucciderà, perché il racconto inizia dalla fine.

Nel corso della storia assistiamo alla sua rinascita, al suo ritrovarsi, dopo essersi perso. Come? Riparando oggetti, tubature, mura e tutto quanto abbia resistito alla distruzione della guerra. Prendendosi cura delle cose e degli esseri umani sopravvissuti. Aiutando a ricostruire case, vite, cuori.

Gli ingredienti per un buon romanzo ci sarebbero tutti: una buona scrittura, fluida, a tratti poetica; una storia di rinascita, di crescita, di speranza; il richiamo della vita, anche nelle situazioni più tragiche; il richiamo del corpo, dei sensi, l'incanto della natura, la bellezza dei rapporti umani veri che danno sollievo e speranza, al di là delle cicatrici e delle sofferenze; e l'espediente di inserire, talvolta come riflessione, talvolta come titolo di capitoli, frasi di testi famosi o strofe di poesie (da Nietzche a Woolf, da Celane a Cohen, da Lorca a Bishop, dai Vangeli al Corano). Ma, a parte qualche pagina di riflessioni sulla guerra e sulla fatica di vivere, alla fine risulta una storia di imbarazzante e fastidiosa banalità, poco plausibile, che resta in superficie: non c'è profondità nella descrizione dei personaggi, né nel dolore, né nella rinascita.

Peccato.



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